Bakhchesaray

la reggia e il monastero

Oggi ci siamo diretti a Bakhchesaray, sede della reggia del Khan della Crimea, di un monastero ortodosso scavato nella roccia e di una "città" ricavata nel calcare. Per recarci la abbiamo preso un pulmino, come al solito piccolo caldissimo e sovraffollato, scoprendo che se non si ha il tempo di fare il biglietto all'autostazione si può sempre camminare fino alla prima fermata e salire li: si pagherà direttamente all'autista anche se si rischia di non trovare posto a sedere. La strada si arrotola su colline basse con pochi alberi e tante vigne, grappoli di case e palazzoni apparentemente cresciuti in mezzo al nulla da e per cui la gente continua a salire e scendere dal nostro pulmino.

Arrivati a destinazione ci siamo procurati un passaggio su una delle mashrukte locali che ci ha scaricato in mezzo a una serie di bancarelle dalla foggia araba piene di paccottiglia di scarsissimo valore, preludio alla visita del palazzo, più interessante, dall'architettura prevalentemente in legno dove si possono visitare alcuni cortili e alcune sale tra cui l'harem con i mobili (cioè qualche divano e qualche madia) quasi d'epoca o perlomeno rifatti di recente, qualche altra sala affrescata con i motivi calligrafici arabi e una gallerie di abiti un po' tarmati. La visita, molto fresca nella penombra degli edifici antichi e pieni di cortili frondosi, è un refrigerio nel'umido opprimente dell'esterno.

Dalla reggia del Khan decidiamo di proseguire a piedi e seguiamo la strada verso il monastero di Upsaka. Ovviamente è la Lenina che si snoda per un paio di chilometri tra piccole casette bianche affastellate e l'occasionale chicco d'uva che rubiamo tra le maglie di un cancello chiuso. Quando lasciamo l'asfalto per salire verso il monastero veniamo circondati da uno stuolo di bancarelle insulse piene, tutte, della stessa roba grosso modo un insieme di bigiotteria e paccottiglia varia tra cui poco altro di interessante che dei braccialetti in legno. All'improvviso la strada sbuca sul lato di un edificio bianco che galleggia scavato nel fianco della montagna, quasi come un castello fatato o fiabesco. Una fonte potabile beatificata, una fontana dorata con il divieto di fotografie e i monaci ortodossi nelle loro tradizionali lunghe vesti scure e la barba bianca e fluente completano il quadro che se non fosse rovinato da un fiume di turisti sarebbe anche ascetico. Salendo verso il santuario è meglio, per le ragazze, coprirsi i capelli con un velo ma prima di entrare nella chiesa devono anche coprirsi le gambe scoperte con un grembiale gentilmente messo a disposizione dai monaci in loco.

Ripartiamo, dopo una breve visita, verso "Manhurkale", la città di ruderi esistenti da 2500 anni scavati o costruiti nel calcare in cima all'altopiano intorno a Bakhchesaray. Non c'è molto da dire, il panorama è carino sulla Crimea assolata e bruciacchiata ma verde dove si raccoglie l'acqua, e i ruderi sono ben poca cosa se non un pallido fantasma di chi ha vissuto qui nel passato.

Ritorniamo a Sebastopoli con un autobus di linea, grosso quasi come i nostri autobus normali. Prendiamo quello per Simferopoli, visto che quello indicato per Sebastopoli va a Simferopoli, presumiamo correttamente infatti che vada a Sebastopoli. Il mnezzo, grosso e vetusto, si mette in moto gracchiando poi passiamo cinque interi minuti fermi mentre l'autista combatte con il cambio facendo ruggire il motore e grattare la marcia che non ne vuole sapere di entrare. Alla fine, dopo tanto sudore, con un sobbalzo partiamo e il resto del viaggio corre tranquillo e sonnolento, complice il caldo, se si escludono un paio di brusche frenate per via di alcune mucche in mezzo alla strada. Veniamo scaricati sull'altra sponda del fiordo di Sebastopoli, e qui finalmente capiamo la lunga discussione per noi incomprensibile che ci è stata rivolta alla biglietteria quando abbiamo preso l'autobus: ora dobbiamo infatti prendere un battello per tornare nella zona turistica della città. Poco male, anzi panoramico, e ci ritroviamo ancora una volta nella fiumana di birre e turisti russi ubriachi. Per terra, a un angolo, un giovane rannicchiato a dormire, non pare morto. Ci stupisce comunque sempre la totale assenza di crimine e l'apparente assenza di droghe. Se si eccettua l'alcol ovvio.

Spendiamo la cena, la mosturosa cifra di 11 euro, in un locale chiamato Taktir dove tra la difficoltà della pittoresca cameriera vestita alla marinara a parlare inglese e un menu tradotto si ma le cui pietanze non sono disponibili finiamo per mangiare quello che ci portano invece di quello che avevamo ordinato: dei ricchissimi piatti a base di grasso, grasso, grasso e anche un po' di carne con patate. Molto gustosi, intendiamoci, ma ne usciamo rotolando e con la lingua ustionata.