Lou Dalfin

come appropriarsi di una piazza

Il piacere, per una sera, di prendere possesso di una piazza della città. Mettersi a correre come matti in un serpentone fatto di persone che si tengono per mano, e poi girare saltare e battere le mani seguendo il ritmo rockeggiante e tradizionale delle gighe, curente, burree, scottish suonate dai validi Lou Dalfin.

Esiste una tradizione musicale italiana molto forte, tradizione che esula da San Remo e dalle più o meno insignificanti cantanti dimenticate dopo un anno e ripescate dalla memoria trenta anni e qualche lifting dopo per tirar un po' su l'audience di una serata televisiva comunque fiacca. Esiste, in Italia, una musica che si lega a tradizioni precedenti addirittura di quella americana, addirittura precedenti alla musica italiana unificata, ma che non viene suonata solo in qualche piccola festa di paese da gruppi musicali d'altra epoca, che viene attualizzata e rivissuta da gruppi sicuramente geograficamente circoscritti ma fortemente appassionati e coinvolgenti.

Così per una sera, forse più che durante le tante notti bianche olimpiche paralimpiche eccetera che hanno arricchito Torino di recente, ci siamo trovati padroni in tanti di una bella piazzetta in centro guidati e eccitati da Sergio Berardo con la sua ghironda e i suoi Lou Dalfin con gli organetti, la batteria, e la chitarra elettrica.

Quando siamo arrivati nella ciottolosa piazza Carignano, tra l'omonimo teatro e la sede del primo parlamento Italiano, risuonavano le parole del comizio di un partito d'ala estrema in lizza per le prossima politiche: un mix di grossomodo anziani allampanati e giovani barbuti premuto sotto il palco e, intorno, un anello un po' spazientito dalla logorrea dell'oratore di turno di gente a cui se anche importa parlare di politica questa sera non interessa: sono li per ballare.

Dopo un po' quando ormai le speranze stavano per smarrirsi tra birrerie vicine e bar poco distanti, un applauso, seguito dal tipico frinire di una ghironda che si accorda, ha riportato fiducia e trasmesso un fremito di calore nel pubblico che ha iniziato a cambiare assetto: un sacco di giovani ragazzi e ragazze e meno giovani, ma non meno volenterosi e volenterose, hanno soppiantato il pubblico sotto il palco, e anche in tutto il resto della piazza.

Non serve molto, già dal primo pezzo la gente inizia a muoversi spinta con prepotenza dai ritmi occitani reinterpretati e modernizzati dallo stile dei Lou Dalfin. Dapprima i più bravi si sono lanciati trascinando le ragazze perplesse con loro, poi i pezzi successivi hanno travolto tutti per mano in un enorme serpentone in corsa pazza per la piazza, mani che tirano braccia, qualcuno più piccolo di statura o di peso letteralmente sollevato da terra nella foga del momento e via senza una meta senza altra direzione che ingarbugliarsi il più possibile tutti insieme. Fiatone, gente trascinata in curve strette veloci e improvvise, mani strette forte sui polsi di chi ci segue, per tirarlo con noi, e sulle mani di chi di precede, per farci tirare da tutti gli altri.

Pochi sono così ottusi alla musica per non farsi coinvolgere, ed è l'inizio solamente. Seguono curente e gighe e burree, ballate a cerchi di trenta, quaranta persone uomini e donne intervallati, i pudori e la diffidenza degli sconosciuti abbattuti da balli in cui le coppie si scambiano ad ogni giro. Quattro passi avanti, ci si gira, quattro passi indietro, ci si gira e si ripete. Poi un passo in dentro, un passo in fuori e una giravolta della donna con cui ci si scambia di posto nella coppia. Ancora un passo in fuori e una seconda giravolta della donna che passa a prendere la mano dell'uomo dietro, e così via portando e facendosi portare a ogni giro insegnando e imparando dagli occasionali compagni.

Subito dopo avanti un altro ballo, questa volta con le braccia dietro la schiena, a coppie, quattro passi avanti, poi tutti per mano due passi verso il centro e due passi indietro verso l'esterno, si ripete, poi partono tutte le donne, quattro passi verso il centro, e ritorno indietro scandito dal battimani degli uomini. Poi gli uomini: quattro passi avanti, giro su se stessi con battimano e indietro a prendere le mani della donna successiva, abbandonando la compagna di prima, per quattro giri veloci una mano sulla spalla e l'altra a prendere l'avambraccio della donna, per girare più veloci. E si ricomincia.

Poi ancora, tutti in una dppia fila, uomini da una parte donne di fronte: quattro volte ci si incontra in mezzo con tre passi, ci si porgono le guance, e si torna indietro. Poi di corsa quattro volte ci si incrocia con una piroetta finale e si ricomincia da capo.

Chi non sa, impara in fretta. Ragazze intraprendenti trascinano ragazzi impacciati, altri osservano intorno. La serata, se pur mitigata da una primavera che si annuncia sincera e concreta (più di molte promesse elettorali) presto si infuoca, le giacche vengono buttate per terra in un angolo e le maglie legate in vita ma è fatica sprecata, il sudore corre copioso lo stesso mentre dal palco la voce pressocchè incomprensibile di Sergio Berardo annuncia l'inno occitano: "se chanto" invitando tutti a cantare, per una volta, invece di ballare.

Mezzanotte arriva in un baleno, e la serata deve finire per permettere alla gente l'indomani di tornare al lavoro o allo studio, un po' più contenti.